Educazione Siberiana
Dal 28 gennaio al 16 febbraio
di Nicola Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo
regia Giuseppe Miale di Mauro
con
Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti
scene Carmine Guarino
luci Luigi Biondi
musiche Francesco Forni
costumi Giovanna Napolitano
cura del movimento Roberto Aldorasi
Teatro Piccolo Eliseo
“Educazione siberiana”, un’opera in grado di attraversare con successo letteratura e cinema, per poi approdare a teatro con una scenografia convincente e originale.
Nato dalla penna di Nicolai Lilin e pensato come primo capitolo di una trilogia, “Educazione siberiana” fa il suo ingresso al cinema, per mano di Gabriele Salvatores, ed ora anche a teatro, al Piccolo Eliseo di Roma.
La versione presentata sul palco è stata pensata dallo stesso autore del romanzo e da Giuseppe Miale di Mauro, anche regista dello spettacolo e direttore della compagnia NestT (Napoli est Teatro), protagonista di questa trasposizione.
La storia alla base dell’opera, in tutte e tre le sue forme, trae spunto dalla realtà degli Urka siberiani – di cui Nicolai Lilin fa parte – deportati all’epoca di Stalin e raggruppatisi, negli anni ’30-40, in piccole comunità povere ma autosufficienti nella zona della Transnistria (oggi Moldova).
Così come il film si prende qualche libertà rispetto al romanzo e quindi al nucleo originario della vicenda, anche la versione teatrale se ne distacca in alcuni aspetti senza mai però tradire l’intento dell’autore, sotto la cui supervisione è avvenuta la stesura del testo. A Fiume Basso i siberiani dettano legge, tramite violenze e crimini efferati, in nome di un’etica fondata sul credo religioso che i membri della comunità non osano mettere in discussione. Appellandosi alla fede, i protagonisti di “Educazione siberiana” uccidono, rubano e combattono una battaglia dura per la sopravvivenza, ma soprattutto si ammantano di un’aura quasi mistica, fatta di simboli: le icone religiose, i crocifissi, le pistole deposte ai piedi delle immagini sacre, le ‘picche’, ossia i coltelli che identificano il vero ‘criminale onesto’ di Fiume Basso, i tatuaggi esibiti come firme. Il loro corpo assume una forte connotazione identitaria tramite l’arte del tatuaggio e diventa esso stesso strumento nelle mani di Dio.
In nome di questa ferrea morale, vengono bandite dalla comunità tentazioni importate dall’Occidente come la droga, ma anche la corruzione e la connivenza con la polizia, considerata alla stregua di feccia da schiacciare sotto il peso dell’autorità siberiana. Proprio queste tentazioni vanno a incrinare il rapporto tra Yurij e Boris, due fratelli cresciuti all’ombra di un nonno capobranco spietato e saggio. Nonostante il forte legame tra i due, la violenza insita nella loro esistenza, fattori socio-politici come il dilagare del modello americano e lo sgretolarsi di quello sovietico, li porteranno a prendere strade diverse, a provare il carcere e la morte delle persone care, sino ad arrivare ad una resa dei conti finale dolorosa.
La compagnia NesT e il regista riescono in un’impresa che, per i conoscitori del libro e del film, sarebbe potuta sembrare difficile: una storia come quella di Nicolai Lilin si presta molto bene alla messa in scena cinematografica (resa molto credibile dall’interpretazione di John Malkovich nei panni del nonno Kuzja), ma a teatro le violenze di Fiume Basso avrebbero potuto incontrare qualche difficoltà logistica; eppure l’organizzazione dello spazio scenico risulta a tal punto convincente da azzerare ogni perplessità.
La versione teatrale avrebbe potuto fare una scelta più furba, quella di attenersi maggiormente al libro che descrive nel dettaglio, quasi in modo didascalico, la comunità degli Urka siberiani e le sue usanze, senza mai lasciare troppo spazio al pathos o all’azione, che invece Gabriele Salvatores mette al centro del suo esperimento per il grande schermo.
In realtà lo spettacolo al Piccolo Eliseo risulta ugualmente carico di tensione, di suspense, avvalendosi di un trittico scenografia-luci-musica vincente. Lo spazio in cui si muovono gli attori è diviso in due da una parete segmentata che si apre a pezzi all’occorrenza, dando allo spettatore una visione decentrata degli avvenimenti: tutto ciò che accade dietro quella parete è pura violenza e dolore, mentre ciò che è sempre visibile è la casa dei protagonisti, inviolabile, entro le cui pareti si concretizza l’essenza della vera ‘educazione siberiana’. Le scene di maggiore azione vengono relegate sul fondo, non vengono mai mostrate per intero per accrescere il pathos, sfruttando un espediente che potrebbe sembrare cinematografico. L’utilizzo quasi simbolico poi delle luci e una musica incalzante e molto ritmata rendono coinvolgenti i combattimenti con la picca o gli scontri con la polizia. Il fatto che la violenza venga mostrata solo a metà, mentre i dialoghi in famiglia per intero, potrebbe alludere alla purezza dei valori insegnati dal nonno che contrasta con gli episodi di criminalità di cui i nipoti si macchiano all’esterno delle mura domestiche.
I visi illuminati dalla luce sul fondo del palco spesso assumono quasi una dimensione eterea, pittorica, che allude certamente alle icone sacre care ai siberiani. In particolare il volto della madre dei protagonisti potrebbe essere paragonato a quello di una Madonna, sofferente per la sorte dei figli.
Se si esclude la messa in scena dello spettacolo, l’interpretazione degli attori principali risulta abbastanza credibile, fatta eccezione per qualche momento in cui il pathos prende troppo il sopravvento e la recitazione appare un po’ forzata. I giovani Adriano Pantaleo, bambino in “Io speriamo che me la cavo” e “Ci hai rotto papà”, e Francesco di Leva, noto per aver recitato nel ruolo di camorrista insieme a Toni Servillo in “Una vita tranquilla”, reggono solo a tratti il peso dei ruoli principali, lasciandosi sfuggire a volte inflessioni dialettali napoletane che cozzano con l’identità e la lingua dei loro personaggi.
È grazie soprattutto però al lavoro dello scenografo Carmine Guarino, di Luigi Biondi alle luci e di Francesco Forni alle musiche, che “Educazione siberiana” rivive sul palco con la stessa forza che al cinema. L’epopea degli Urka siberiani si fissa nella memoria tramite immagini vivide, crude, e in questo il teatro ha contribuito quanto la letteratura o la settima arte.
Irene Armaro
Dal 28 gennaio al 16 febbraio
Teatro Piccolo Eliseo, Via Nazionale 183 - 00184 Roma
Info: 0648872222 – 064882114; info@teatroeliseo.it
Orari recite: martedì, giovedì, venerdì, sabato ore 20.45; mercoledì, domenica ore 17.00

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