sabato 5 ottobre 2013

Imran Qureshi


Imran Qureshi
 Deutsche Bank’s Artist of the Year 2013
Dal 25 settembre al 17 novembre
MACRO, Roma


Il MACRO accoglie la prima personale italiana dell’artista pachistano Imran Qureshi, una mostra all’insegna della violenza del colore e del simbolismo.

Nel suggestivo spazio espositivo del MACRO di Roma è possibile ammirare la mostra di un artista complesso e affascinante, proveniente dal Pakistan: Imran Qureshi, vincitore del premio Deutsche Bank’s Artist of the Year per l’anno 2013, un riconoscimento dedicato a giovani artisti emergenti dotati di spiccata creatività. Le sue opere affondano le radici nella cultura e nella storia del suo paese dove attualmente vive e lavora come insegnante di pittura miniaturistica al National College of Art. 

L’elemento caratterizzante nell’artista è la commistione di tradizione e modernità che si concretizza nell’utilizzo simultaneo della tecnica miniaturistica moghul (XVI-XVII secolo, sub-continente indiano) e di simboli e pratiche della pittura contemporanea. L’ispirazione di fondo però va sempre cercata nelle vicende storiche e sociali del Pakistan, un paese sottoposto costantemente alla brutalità della violenza, ma pur sempre in grado di risollevarsi grazie allo strumento della speranza. Il sentimento che le opere trasmettono vorrebbe fungere da esempio o monito per tutti quei paesi che condividono le sorti del Pakistan, che vivono con sofferenza la globalizzazione e la perdita delle loro tradizioni.

Il percorso espositivo evolve in maniera progressiva, dato che nelle prime sale prevale la tecnica della miniatura, ma via via poi la modernità artistica prende piede, lasciando spazio a interventi tendenti all’installazione, che si propongono di coinvolgere lo spettatore. La mostra si dipana poi all’insegna di contrasti costanti, al di là di quello fondamentale tra tradizione e contemporaneità: la stesura piatta e precisa del colore nelle miniature si scontra con la pittura a macchia degli ovali; la presenza fissa di elementi vegetali si mescola a quella di simboli di guerra, in modo tale da enfatizzare il contrasto tra la vita e la morte, tra la violenza della modernità e la purezza della natura. Imran Qureshi vuole denunciare e allo stesso tempo suggerire una strada per uscire dal pantano storico di paesi come il Pakistan.

I colori che l’artista sceglie sono sempre gli stessi, sia nelle miniature che negli ovali: rosso sangue soprattutto, seguito da un oro steso quasi a ricordare una lamina e un blu acceso. L’associazione blu-oro tra l’altro ricorda antichi mosaici o pitture di epoche lontane. Si potrebbe dire però che è il rosso a fare da padrone, poiché ricrea la violenza della guerra e delle sofferenze del Pakistan, alludendo allo spargimento di sangue. Il grosso ovale rosso che troneggia nella prima sala cattura lo sguardo sin da subito, veicolando la sensazione di trovarsi di fronte a un’immagine interna del corpo umano, tra organi e venature.

Costante è anche il ricorso a simboli: l’ovale, il fiore, il razzo, le foglie, la camicia insanguinata e molti altri riconducibili alla cultura di Qureshi o alla tradizione pittorica abbracciata per l’occasione.
La pratica della pittura a macchia o a schizzo regna sovrana nella seconda sala dove, al posto di cornici e fogli miniati di piccole dimensioni, il colore viene spruzzato e fatto colare su fogli bianchi e da essi simbolicamente per terra. Lo spettatore è costretto a camminare in mezzo a germogli di colore rosso che ricreano bellissimi fiori, ma a primo impatto ricordano chiazze di sangue. Il rosso cola anche sopra documenti scritti, di cui il più significativo e riconoscibile è quello che reca in neretto la scritta “Blood Circulation”.

Nella terza sala prosegue la suggestione del sangue, poiché migliaia di fogli imbrattati di rosso sono accartocciati e ammassati a formare le gobbe di due montagne. Ancora una volta l’elemento naturale si mischia a un sentimento feroce, suggerito dagli accorgimenti pittorici usati. 

La sala più affascinante è quella che ospita solo cinque grossi ovali dorati e rossi, che ripetono gli stilemi del linguaggio pittorico di Imran Qureshi, ma con la differenza che stavolta la sala ha pareti bianche. Il nero degli altri spazi intensifica l’inquietudine che le opere già da sole veicolano, mentre il bianco esalta la potenza del colore degli ovali e ne sminuisce la carica violenta. Se il bianco è il colore della speranza, bisogna credere ancora una volta che l’artista abbia voluto creare per lo spettatore un percorso di sofferenza in grado di condurlo verso la luce. 
Si potrebbe ricordare al riguardo anche la sua installazione sul tetto del MOMA di New York, contemporanea alla mostra del MACRO, prende il nome di "And How Many Rains Must Fall Before The Stains Are Washed Clean", cioè ‘quanta pioggia dovrà cadere prima che le macchie vengano lavate via’: l’aver collocato l’opera fuori, alla luce del sole o sottoposta alle intemperie della pioggia, simboleggia la speranza che la natura spazzi via con tutta la sua potenza i residui di dolore che le macchie riproducono.

Irene Armaro






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