mercoledì 9 aprile 2014

Medea


Medea

Teatro Eliseo
Fino al 17 Aprile

Con Maria Paiato
E con Max Malatesta, Giulia Galiani, Orlando Cinque e Diego Sepe
di Seneca

riadattato da Francesca Manieri
regia di Pierpaolo Sepe


Non una cavea di pietra per celebrare un dramma antico quanto contemporaneo. Nessun teatro greco-romano per dare voce ad un dolore universale, quello di Medea.

La Medea di Seneca, riadattata da Francesca Manieri e diretta da Pierpaolo Sepe va in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 16 aprile.

E’ sul palcoscenico del teatro romano che prende forma, si delinea e rivive con un ritmo ascendente e incalzante il dramma di uno dei più noti personaggi femminili della tragedia classica avvinghiato ad una sorte avversa e nefasta: Medea.
Una donna austera, l’immago fatale di un personaggio estremo che assottiglia i labili confini tra ratio e furor e placa la sua sete di vendetta contro il marito Giasone, compiendo il delitto dei delitti: l’uccisione dei suoi figli.

Una rappresentazione teatrale breve ma intensa, quella di un cast di eccellenza composto da Maria Paiato, Max Malatesta, Giulia Galiani, Orlando Cinque e Diego Sepe, in linea perfetta con la concinnitas di Seneca. Cinque personaggi: Medea, Creonte, Giasone, la Balia e un narratore per rievocare e raccontare un dramma antico, per graffiare anche l’indole più imparziale in platea.
Uno spettacolo di recitazione pura che al pari del furor della protagonista Maria Paiato nelle vesti di Medea, scalcia, prende a pugni lo spettatore per la potenza visiva delle sue scene e per la visionaria evocazione delle sue immagini. Il tutto a cavallo di tre epoche diverse: la tragedia di ieri, il caos del mondo contemporaneo, l’atroce disfatta del futuro che attende l’umanità.
Il sipario si apre su una moderna fabbrica dismessa che suggerisce l’idea di un interno del Palazzo reale, un tempo ricco e fastoso, adesso solo scarno, logoro. Solo macerie, brandelli. Occhi per piangere. Un cuore nero di furia e disperazione che vaga in pena.
Tutto in penombra. Solo degli sprazzi di luce ai lati e dal lucernario al centro del soffitto. Luce che non redime o che indica salvezza. Luce che acceca Medea; che offusca, impasta i suoi pensieri rendendoli più truci. 

Ripudiata dal marito, Medea è condannata all’esilio come moglie e come madre: il marito le nega anche i figli. 
La negazione, l’annichilimento dell’amore, prima quello nuziale, poi quello filiale è il principio e la fine di una tragedia che si preannuncia sin dall’inizio dello spettacolo. 
Negazioni che generano rabbia, rancore, odio. Flussi di coscienza in cui un’eccelsa Maria Paiato lotta contro il suo Io di donna, moglie e madre, rivolgendosi ora ai suoi antagonisti, il marito e la nuova sposa, ora agli Dei, supplicando o spergiurando.

Quale la soluzione ad un terribile affronto, quale la misura di odio da attuare per farsi giustizia da sola? L’ennesima diatriba tra giustizia dell’Io e giustizia dello Stato, dei potenti.
L’unica via di uscita appare per Medea la stessa misura dell’amore: i figli. Negare la prole al marito, per “partorire la vendetta” del suo dolore, del suo strazio.

Odio genera odio. Negazione deflagra in ulteriore negazione. Una madre arriva ad uccidere i suoi bambini per vendicarsi di un marito potente e autoritario.
Lo spettro di Medea aleggia in modo sempre più convulso per la scena, fin quando echi, rimorsi e colpe lo pongono in una genuflessione al centro del palcoscenico con una sublime evocazione di una croce alle sue spalle. Un’umanità inginocchiata, degli Dei punitivi, nessuna misericordia per chi, schiacciato dalle scelte dei potenti, si sporca le mani, anche con il sangue dei più deboli per farsi giustizia.
Linda Tiralongo

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