venerdì 25 ottobre 2013

“16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei a Roma”


“16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei a Roma”
17 ottobre – 30 novembre
Complesso del Vittoriano, Roma


L’infamia tedesca” raccontata attraverso documenti scritti, fotografie, tasselli di vita dei 1.022 ebrei che furono prelevati dal ghetto il 16 ottobre 1943, per essere poi deportati ad Auschwitz e Birkenau.


In occasione del 70° anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, il Complesso del Vittoriano apre le porte alla mostra “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma”, a cura di Marcello Pezzetti, Direttore della Fondazione Museo della Shoah. L’inaugurazione del percorso espositivo si inquadra in una giornata di iniziative (il 16 ottobre 2013), anche istituzionali, in ricordo delle vittime. L’importanza di una mostra del genere risiede nel fatto di dare una visione esauriente e completa del fatto storico, della più grande razzia, nonché la prima, perpetrata dai nazisti in Italia. Il curatore, Marcello Pezzetti, in un discorso introduttivo, afferma di aver voluto costruire un progetto che andasse bene soprattutto per le scuole, che potesse aprire gli occhi ai ragazzi su ciò che è stato realmente, permettendogli di avere a che fare nel concreto con pezzi di vita delle famiglie deportate.

Grazie alla dinamica del percorso e al tipo di testimonianze raccolte, la prima cosa che lo spettatore impara è quanto gli ebrei fossero radicati nella città di Roma e quanto quindi la razzia abbia aperto una ferita insanabile nella quotidianità urbana. Il tessuto rosso e oro conservato all’entrata della mostra è simbolico: gli ebrei erano anch’essi tessuto della città, cittadini ancor più dei romani, tanto da integrarsi perfettamente nella capitale. Nella prima sala infatti viene esemplificato questo concetto tramite oggetti, documenti e foto del periodo 1870-1938. È possibile ricostruire com’era concepito a livello architettonico il ghetto, instabile perché sviluppato in altezza sulla riva del Tevere, ma anche l’impegno civico degli ebrei che partirono per la guerra come tutti gli altri italiani o si impegnarono in politica. Le vecchie foto conservate si riferiscono tutte a famiglie che saranno poi vittime della deportazione ed è interessante ricostruirne la storia nelle varie sale.

Del periodo successivo (1938-1943) sono conservate testimonianze contraddittorie: il fascismo e la retorica nazionalista razzista hanno attecchito, per cui vediamo una foto di una prima manifestazione antisemita a Roma, che si trasforma da città tollerante a baluardo della propaganda di guerra; immagini degli ebrei costretti al lavoro coatto per legge, per esempio sulle sponde del Tevere; infine, scolaresche vittime della segregazione razziale immortalate in bianco e nero. Allo stesso periodo però appartiene anche un sontuoso ritratto del Presidente della Comunità Ebraica, in pompa magna, simbolo di un mondo che perde progressivamente il proprio prestigio, ma che cerca di rimanere aggrappato ad esso.

Una sezione interessante riguarda la fase subito antecedente alla razzia, quella in cui i nazisti sfogarono le proprie smanie antisemite sottraendo oro e opere d’arte alla famiglie ebree, che si convinsero per questo di aver pagato abbastanza e di essere al sicuro, in virtù anche di un concetto ben radicato nella mentalità romana: Roma era la città del Papa, dunque veniva considerata intoccabile. A proposito di questi furti, in un corridoio tra due sale contigue, viene data una rappresentazione simbolica dello scempio che i nazisti fecero della cultura ebraica: il curatore spiega che i tre manoscritti aperti, che campeggiano in un mare di volumi antichi, sono originali, sono quelli che sono stati salvati; gli altri libri sparsi sul fondo, chiusi, alludono a tutte quelle opere che sono andate perdute e che la Fondazione Museo della Shoah sta ancora cercando.

La mostra entra poi nel vivo di quel 16 ottobre del 1943. La prima cosa che vediamo sono foto degli ufficiali tedeschi che perpetrarono l’attacco al ghetto: Theodor Dannecker, l’uomo di fiducia del Reich, che guidò l’assalto insieme al capo della polizia tedesca a Roma, Herbert Kappler, il primo a cui arrivò l’ordine di procedere con la deportazione. Di fronte alla richiesta dell’ufficio Affari Ebraici di Berlino, quindi di Eichmann, Kappler titubò: a Roma, all’epoca, abitavano circa 13.000 ebrei, racconta Marcello Pezzetti, ma solo 8.000 sarebbero potuti essere prelevati, data la difficoltà della manovra e la poca disponibilità di uomini per l’operazione (alla fine furono presi in 1.022). La controproposta di Kappler fu quella di metterli ai lavori forzati, senza deportarli, ma la risposta da Berlino fu secca e risoluta. Per sopperire alla mancanza di poliziotti, furono assoldati circa 365 “riservisti”, uomini comuni assoldati dal Reich, ma impreparati e non motivati ideologicamente. Il curatore racconta la storia dell’unica foto di tre di questi “mercenari”, di come sia stata regalata dal figlio di uno di essi – Pezzetti non può però rivelare chi sia il padre – che altrimenti l’avrebbe bruciata, per lavare via l’onta di un padre che scelse di aiutare i nazisti senza alcuna motivazione forte apparente.

Molto suggestivo è anche il pezzo di calendario che compare nella locandina della mostra, quel documento dell’Avv. Dante Calò che reca la scritta “infamia tedesca”. L’uomo scampò alla deportazione, ma condensò in una frase tutto l’orrore di quella giornata sulla pagina del 16 ottobre. La vicenda di Calò è uno dei fili conduttori del percorso, insieme per esempio a quella di Settimia Spizzichino, l’unica donna sopravvissuta alla deportazione e al rastrellamento.

Per capire la dinamica di quella giornata, il curatore illustra anche un’enorme mappa che segna le zone prese di mira dai nazisti. Contrariamente alle aspettative, non solo il ghetto fu assaltato: grazie al furto delle liste del censimento, gli ufficiali tedeschi si mossero con facilità per tutta Roma a caccia di singoli ebrei, di gruppi di due-tre persone o di famiglie intere, senza fare differenze. Alcuni furono poi rilasciati.

Una parziale ricostruzione degli eventi all’interno del ghetto è possibile grazie all’arte figurativa di due pittori, Aldo Gay e Pio Pullini che disegnarono i momenti della razzia con vivida lucidità e concretezza, una testimonianza preziosa costruita mentre l’atto veniva perpetrato. 

Le sale successive e finali sono dedicate soprattutto alle vite delle vittime che furono prelevate, messe su un treno a Tiburtina e portate ad Auschwitz e Birkenau. Possiamo osservare le istruzioni per gli arrestati scritte dai tedeschi, documenti che attestano la collaborazione di molti italiano al rastrellamento, e poi soprattutto foto di blocchi familiari, biglietti buttati dal treno, pezzi delle loro vite distrutte, come il commovente disegno di Topolino di una bambina piccola catturata insieme alla famiglia. Tra le tante storie, singolare è quella dell’Ammiraglio Capon, ebreo ma fascista, che all’atto dell’arresto si presentò con un foglio autografato da Mussolini a dimostrazione della propria fede politica. La scure nazista si abbattè impietosa anche su di lui, uomo ‘di prestigio’, ma vittima come tante di uno dei più grossi scempi della storia.
Irene Armaro


“16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei a Roma”
Dal 17 ottobre al 30 novembre
Complesso del Vittoriano, Sala Zanardelli, Piazza dell’Ara Coeli, 1 - Roma


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