sabato 1 marzo 2008

P R O C E S S O A D I O

TEATRO VALLE

La Contemporanea S.r.l.
presenta OTTAVIA PICCOLO
in
P R O C E S S O A D I O
di Stefano Massini
conVITTORIO VIVIANI e SILVANO PICCARDI
Regia Sergio Fantoni
Scene e costumi di Gianfranco Padovani
e con
Olek Mincer
Enzo Curcurù
Francesco Zecca

Ci sono idee – frammenti di luce, indizi di storie – che incontri una volta e non ti lasciano più. Erano anni che tenevo chiusa in qualche cassetto della mente la traccia di un Processo a Dio all’indomani della Shoah. Immaginavo quel processo come una resa dei conti: violenta, acuta, drastica. Sicuramente un appuntamento non più rimandabile, un guardarsi negli occhi fra terra e cielo. Tutto questo stava in quel cassetto, insieme a squarci di azione, atmosfere abbozzate, profili delineati come uno schizzo al carboncino. Ed ogni volta che, per caso, quel cassetto si apriva, puntualmente mi assaliva la voglia di tentare una forma scritta, traducendo finalmente in dialogo quella scommessa così estrema, per me fascinosa, densa, intrigante. Devo a Sergio Fantoni la riapertura definitiva del cassetto, lo stimolo fortissimo a dar vita teatrale a quegli schizzi provvisori. Ho lavorato su “Processo a Dio” come forse si lavora ad una statua: ho sgrossato il blocco di marmo per poi scendere sempre più nel dettaglio. Ed era come se il testo esistesse già, laggiù, in fondo al blocco. Lo stavo scoprendo, come svelandolo: un passo dopo l’altro mi si rivelavano i tratti dei personaggi, i nodi della vicenda, le dinamiche della trama, il disegno del dialogo. Sono stato spettatore di ciò che scrivevo e scrittore di ciò che vedevo scorrermi davanti agli occhi. Giorno dopo giorno ha preso vita sulla carta la febbre di Elga Firsch, attrice ebrea di Francoforte che a tutti i costi vuole Dio alla sbarra. E ancora - giorno dopo giorno - le si sono affiancati il rabbino Nachman difensore di Dio, il giovane Adek smanioso di vendetta, lo Scharführer Reinhard relitto del Reich e i due anziani Solomon e Mordechai, giudici severi di un processo che non può non farsi gara dura, senza esclusione di colpi, combattuta con l’istinto feroce dei sopravvissuti, di chi – marchiato dal lager – brucia per la rabbia di un massacro tanto barbaro quanto assurdo, indecifrabile, insensato. Perché in fondo la parola chiave di questo testo non è il dolore dell’Olocausto, bensì il non-senso: quella nebbia fitta che avvolge il presente, quella insignificante banalità che muove la storia con il tragico sconcerto di chi ne è vittima. Se l’uomo è un burattino, chi lo muove? E quale logica segue il teatrino del mondo? Sono queste le domande che, come un magma, muovono il testo dal suo interno. Elga Firsch accusa Dio con la voce, in fondo, dell’umanità intera: l’umanità di ogni epoca e bandiera. E vale forse, come esempio, una battuta del rabbino Nachman: “il processo a Dio non lo facciamo noi: non si è mai chiuso. Da cinquemila anni.”

Stefano Massini - Firenze, 14 luglio 2005

Note di regia
Mai come in questa occasione trovo difficoltà a scrivere del lavoro fatto per la rappresentazione del testo di Massini. Non perché abbia seguito particolari procedure ma perché il percorso, al contrario di altre volte, è stato incerto e tortuoso, in quanto partiva dal presupposto che il mondo “concentrazionale” è irrappresentabile. Il fatto, tra i tanti, che più mi ha colpito leggendo o rileggendo, a distanza di anni, le testimonianze dei “salvati”, è stato la loro difficoltà a testimoniare dal vivo l’esperienza del lager, il loro “doloroso senso del pudore” a raccontare. Un silenzio che sembrava suggerire un complesso di colpa, come Primo Levi ha sottolineato, per essere ancora vivi. Le testimonianze dei sopravvissuti sono state affidate quasi sempre ai libri, alla parola scritta. Pochissime le immagini, le interviste, le foto, del “dopo”. Esisteva una precisa linea di demarcazione tra il “prima” e il “dopo”. Linea che non è stata quasi mai valicata. Ecco, forse, è stata questa piccola scoperta ad aiutarmi a credere che l’intuizione di Stefano, il suo “processo”, potesse essere rappresentato. I personaggi del “processo” hanno vissuto tutti il lager, hanno visto gli avvenimenti del lager, erano tutti consapevoli di quello che dicevano e di cosa parlavano, anche se molte cose le hanno scoperte dopo la liberazione. Quindi non dovevano convincere nessuno, non temevano sguardi scettici, curiosi ma increduli, non temevano di essere smentiti: avevano tutti bevuto lo stesso veleno. Temevano una sola cosa: il ritorno alla vita di tutti i giorni, a quella vita che poco alla volta avrebbe cancellato o che non avrebbe più voluto sentir parlare, sembra assurdo solo pensarlo, della loro “esperienza”. Temevano, e a ragione, un procedimento di cancellazione della loro ormai incancellabile identità: aver vissuto il lager. Il capannone- magazzino della commedia per i nostri personaggi è come la camera di decompressione prima di entrare in un altra dimensione dell’esistenza. E allora ecco l’urgenza delle domande e la necessità di almeno qualche risposta prima di essere costretti a custodirle nel silenzio del “dopo”. Sfiancati nel fisico, certamente alterati nella mente, il difficile era immaginare non “cosa” domandassero ma “come”. Ho cercato di sollecitare questa allucinata urgenza, questa necessità insensata, da un certo punto di vista, ma del tutto razionale, di capire, di sapere, di cercare un colpevole anche a costo di cercarlo dove da sempre, sembra proibito cercarlo. Il loro sguardo, la loro voce, ha qualcosa di anormale, è carica di rancore, di rabbia, non per ciò che hanno sofferto ma per l’impossibilità di trovare delle risposte. Non si sentono per nulla martiri di un idea, ne avevano tante e diverse, ma zimbelli del caso o di un Dio distratto. La consapevolezza di non contare niente, di non meritare neanche lo straccio di una parola li umilia, li offende. Si sentono dimenticati, esclusi. Usciti da quel magazzino, senza risposte, continueranno in silenzio a domandare: perché? Perché? Gli strumenti per chiedere agli eventi della nostra storia di obbedire a un sia pur larvato concetto di giustizia, almeno come lo intendiamo noi, non ci sono, non li abbiamo. A parte la fede, naturalmente. “Nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa…è stolto pensare che la giustizia umana la estingua…si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia…” (P. Levi). Devo sottolineare che tutti i miei compagni di lavoro, gli attori e i tecnici, hanno non solo messo in campo le loro capacità professionali, come sempre, ma in questa occasione una concentrazione e una adesione ai temi della commedia che non sperimentavo da tempo. Grazie. A loro e a Stefano Massini Sergio Fantoni
Diventare Elga Firsch
Leggendo per la prima volta, e tutto d’un fiato, Processo a Dio di Stefano Massini, ho capito che sentivo necessario questo suo testo, intuendo addirittura che si potesse superare il rischio che la macchina scenica sporcasse un argomento così sensibile come la Shoah. Ne ho avuto la conferma andando in scena: Elga Firsch è, con i suoi compagni di sventura, l’esplicitazione di tutte le nostre domande di fronte all’orrore, alla violenza, al male. È anche una grande occasione professionale, una sfida. Sono alcuni anni che le mie scelte si indirizzano verso temi attuali e civili. Sergio Fantoni e Fioravante Cozzaglio, in veste di produttori (La contemporanea), e Silvano Piccardi, regista, mi hanno assecondata, consentendomi di essere motore e interprete di spettacoli sui desaparecidos argentini e sul conflitto israelo-palestinese, temi non facili, ma non intoccabili. Processo a Dio, invece, mi permette di avvicinare con tutto il rispetto di cui sono capace, con onestà di cuore e di mente, un universo devastato che con le parole di Primo Levi, di Eli Wiesel, di Liana Millu e di molti altri avevo conosciuto, ma mai assunto sulla mia persona. Considero ciò una conquista e, insieme con Sergio Fantoni e con tutti i miei compagni di palcoscenico, vorrei trasmetterla a chi si accosta con attenzione al nostro lavoro.
Ottavia Piccolo - Milano, dicembre 2006

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